Incentivi nel Contratto a Tutele Crescenti

Post by Avv. Nicola Ferrante
on 22 Settembre 2015

Come già illustrato, il Governo ha introdotto il contratto a tutele crescenti - ossia un contratto di lavoro subordinato con una tutela crescente nel caso di licenziamento illegittimo – allo scopo di favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Per lo stesso motivo il Governo ha anche adottato una normativa che prevede sgravi contributivi molto vantaggiosi nel caso di assunzione di dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Tali esoneri contributivi - riconosciuti per ben tre anni, relativamente alle assunzioni effettuate fino al 31/12/2015 -, sono stabiliti dall’art. 1, comma 118 e 119 Legge 190/2014, dalla Circolare Inps 17/2015 e dal Messaggio Inps 1144/2015.

In particolare, l’esonero riguarda i contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro in relazione alle nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dall’1/1/2015 al 31/12/2015.

L’esonero, d’altra parte, è riconosciuto solo nel caso di lavoratori che non siano stati occupati con contratto a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro. Un’eccezione a tale regola è data dalla sussistenza di un rapporto di lavoro intermittente, o a chiamata, a tempo indeterminato nell’arco dei sei mesi precedenti la data di assunzione: questo caso non costituisce condizione ostativa per il diritto all’esonero contributivo triennale recato dalla norma in esame.

L’esonero non scatta nel caso di assunzioni nell’arco dei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della Legge di stabilità 2015, quando il lavoratore assunto abbia avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il datore di lavoro richiedente l’incentivo ovvero con società da questi controllate o a questi collegate. Per il settore agricolo, le predette condizioni per il riconoscimento dello sgravio presentano profili di diversità.

Il beneficio non si applica nel caso di contratti di apprendistato e di contratti di lavoro domestico, che hanno comunque propri regimi di contribuzione agevolata.

Possono godere dell’esonero contributivo qui descritto tutti i datori di lavoro privati anche non imprenditori, nonché i datori di lavoro agricoli, “ancorché con misure, condizioni e modalità di finanziamento specifiche” (Circolare Inps 17/2015).

Ma quanto dura esattamente e a quanto ammonta lo sgravio anzidetto? Il beneficio dura 36 mesi dalla data di assunzione ed ammonta ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi INAIL, nel limite massimo di un importo pari a euro 8.060,00 su base annua.

L’applicazione dello sgravio non penalizza il lavoratore in termini pensionistici né relativamente agli istituti e agli interventi previdenziali tipici del settore in cui opera il relativo datore di lavoro.
E’ il caso di evidenziare come la Circolare Inps 17/2015 specifichi che l’incentivo all’assunzione in oggetto non segua il principio introdotto dalla l. n. 92/2012, secondo cui gli esoneri e le agevolazioni non spettano nel caso in cui l’assunzione costituisca attuazione di un obbligo derivante dalla legge o dal contratto collettivo di lavoro. Ciò allo scopo di promuovere la massima espansione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. La stessa Circolare specifica i casi di compatibilità con altre forme di incentivo all’occupazione.

Se lo sgravio contributivo è un aspetto vantaggioso per datore di lavoro e lavoratore, in quanto favorisce l’occupazione e abbassa il costo del lavoro, d’altra parte un altro aspetto che agevola le parti nel caso, invece, di vertenza derivante dall’impugnazione del licenziamento è la c.d. offerta di conciliazione. In particolare, la nuova normativa pare poter favorire una risoluzione consensuale della controversia perché, attraverso la defiscalizzazione della somma definita per concludere la conciliazione, è possibile liberare maggiori risorse.

Il datore può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, nelle sedi previste dalla legge, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. In particolare, si tratta di una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18. L’importo va pagato al lavoratore mediante assegno circolare, la cui accettazione ha l’effetto di estinguere il rapporto alla data del licenziamento e di rinuncia all’impugnazione, nel caso fosse stata proposta. E’ comunque necessario tener presente che le eventuali somme stabilite a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto sottostanno al regime fiscale ordinario.

In questa sezione potete trovare gli articoli riguardanti il contratto a tutele crescenti, le ipotesi di illegittimità del contratto a tutele crescenti, altre ipotesi di illegittimità del contratto a tutele crescenti, gli incentivi nel contratto a tutele crescenti.

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Nota: si precisa che gli articoli presenti su questo sito sono da considerarsi come un riassunto, a mero titolo informativo, della più ampia disciplina dei contratti di lavoro. Lo studio non si assume nessuna responsabilità per l’uso di tali informazioni. Gli articoli sono protetti dalla legge sul diritto d’autore.

Altre Ipotesi di Illegittimità nel Contratto a Tutele Crescenti

Post by Avv. Nicola Ferrante
on 22 Settembre 2015

Oltre al licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale e al licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, compreso il caso di insussistenza del fatto materiale contestato (caso particolare del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo), il Decreto Legislativo n. 23/2015 interviene sulla disciplina del licenziamento per vizi formali e procedurali e nel caso di licenziamento collettivo.

In particolare, il licenziamento per vizi formali e procedurali riguarda il caso di violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura disciplinare prevista dallo Statuto dei lavoratori (art. 7 legge n. 300/1970). In queste due ipotesi, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità. Tale importo non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Il giudice potrebbe comunque accertare, sulla base della domanda del lavoratore, la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, oppure nel caso di mancanza di giustificato motivo e giusta causa. In entrambi i casi scatterebbe, pertanto, la diversa e maggiore tutela del lavoratore, prevista dagli articoli 2 e 3 del Decreto Legislativo n. 23/2015, cioè rispettivamente la tutela piena nel caso di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, oppure la tutela nel caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa oppure insussistenza del fatto materiale contestato.

Nel caso, invece, di licenziamento collettivo, è necessario distinguere due ipotesi differenti. Innanzitutto, nel caso di licenziamento collettivo intimato senza l’osservanza della forma scritta, il giudice applica la tutela piena, quindi la reintegrazione (o, in alternativa, l’indennità sostitutiva) e il risarcimento ampio (un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative).

Nel caso di violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12, (vizi nelle comunicazioni) o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all'articolo 3, comma 1, ossia il rapporto si lavoro è risolto e il datore è condannato al pagamento di un’indennità, in favore del lavoratore, pari a due mensilità per ogni anno di servizio, non comprendenti i contributi sindacali, indennità comunque non inferiore alle 4 e non superiore alle 24 mensilità.

E’ inoltre il caso di ricordare che la tutela qui richiamata, diminuisce nel caso di piccole imprese Se l’azienda non raggiunge i requisiti dimensionali indicati dall’art. 18, c. 8 e 9, l. n. 300/70 (ossia 15 dipendenti nell’ambito dello stesso comune, oppure 60 complessivamente, a meno che non si tratti di impresa agricola, per la quale vi sono altri parametri), non si applica l’art. 3, c. 2 della nuova normativa sul contratto a tutele crescenti (insussistenza fatto materiale contestato). Inoltre, l’ammontare delle indennità previste dall’art. 3, c. 1 (caso generale di giusta causa e giustificato motivo) e dall’art. 4, c. 1 (ipotesi dei vizi formali e procedurali) è dimezzato e comunque non può superare in ogni caso il limite delle 6 mensilità.

Per quanto riguarda, invece, la differente ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in azienda che raggiunge i requisiti dimensionali indicati dall’art. 18, c. 8 e 9, l. n. 300/70, la procedura di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/66 – che richiede una comunicazione preventiva del licenziamento alla Direzione territoriale del lavoro, inviata per conoscenza al lavoratore, e un tentativo di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro (Dpl) -, non è applicata.

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Il Contratto di Lavoro a Tutele Crescenti

Post by Avv. Nicola Ferrante
on 22 Settembre 2015

Il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con uno specifico regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo. Tale tutela aumenta con l’aumentare dell’anzianità di servizio del lavoratore.

La normativa di riferimento è il Decreto Legislativo 04/03/2015, n. 23, che stabilisce una disciplina differente rispetto a quella dell’art. 18 l. n. 300/1970 (come già modificata dalla legge Fornero, l. n. 92/2012), nonché rispetto alla disciplina in tema di licenziamento anche al di fuori dell’applicazione dell’art. 18 dello Statuto, quindi relativamente alla legge n. 604/1966. In pratica, finché non si avrà una situazione in cui tutti i contratti saranno a tutele crescenti, coesisteranno nel nostro ordinamento tre differenti tutele in caso di licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato.

L’introduzione di questa nuova fattispecie contrattuale si collega all’obiettivo del Governo di favorire le assunzioni a tempo indeterminato. E’ per questo motivo che sono stati anche introdotti degli sgravi contributivi molto vantaggiosi, alle condizioni previste dalla legge, per l’assunzione di dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Tali esoneri contributivi - riconosciuti per ben tre anni, relativamente alle assunzioni effettuate fino al 31/12/2015 -, sono stabiliti dall’art. 1, comma 118 e 119 Legge 190/2014, dalla Circolare Inps 17/2015 e dal Messaggio Inps 1144/2015.

Il contratto a tutele crescenti si applica a: (i) i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla data di entrata in vigore del decreto: tale contratto di lavoro diviene pertanto la nuova forma comune di contratto; (ii) i casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato: il contratto a tutele crescenti servirà a stabilizzare, pertanto, i rapporti a termine già in essere. C’è un ulteriore caso molto interessante, ovvero (iii) il caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore della normativa sul contratto a tutele crescenti, integri il requisito occupazionale ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in particolare è interessante notare come in quest’ultima ipotesi «il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data» è disciplinato dal Decreto n. 23/2015. La disciplina dell’art. 18 l. n. 300/70, pertanto, sopravvivrà solo per chi ne ha diritto all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23/2015, e finché l’azienda manterrà i requisiti dimensionali richiesti.

La nuova normativa prevede una tutela in caso di licenziamento che differisce a seconda che si tratti di: licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale; licenziamento per giusta causa e giustificato motivo; insussistenza del fatto materiale contestato (caso particolare del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo); vizi formali e procedurali; licenziamento collettivo.

La tutela prevista dalla nuova forma di contratto subordinato a tempo indeterminato differisce inoltre a seconda che si tratti di: lavoratore assunto in azienda che raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della l. n. 300/1970 (più di 15 dipendenti nello stesso comune, oppure più di 60 a prescindere dal comune, tranne per i lavoratori agricoli, per i quali i limiti dimensionali si abbassano); lavoratore assunto in aziende che non raggiungano tali requisiti dimensionali, definite pertanto «piccole imprese»; lavoratore assunto in organizzazioni di tendenza.

E’ sempre possibile la revoca del licenziamento entro 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo. In questa ipotesi si ha il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità (pertanto come se non fosse mai cessato) e il diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.
Uno degli aspetti più interessanti della normativa è la c.d. offerta di conciliazione. Il datore può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, nelle sedi previste dalla legge, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Ciò permetterà di liberare maggiori risorse per la conciliazione.

La nuova disciplina ha anche delle ripercussioni sulla eventuale violazione delle procedure richieste dalla legge per il licenziamento collettivo (l. n. 223/1991) ed esclude l’applicazione della procedura di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/66, che era stata introdotta dalla legge Fornero per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nelle aziende che raggiungono i requisiti dimensionali ex art. 18 l. n. 300/1970.

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Contratto a Tutele Crescenti: Ipotesi di Illegittimità

Post by Avv. Nicola Ferrante
on 22 Settembre 2015

Il Decreto Legislativo n. 23/2015 prevede una tutela in caso di licenziamento che cresce con l’anzianità aziendale del lavoratore. Tale tutela differisce in quattro casi principali: licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale; licenziamento per giusta causa e giustificato motivo; insussistenza del fatto materiale contestato (caso particolare del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo); vizi formali e procedurali; licenziamento collettivo.

Analizziamo le prime due ipotesi.

Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio – basato sul fatto che un lavoratore/trice aderisca o non aderisca a un sindacato oppure basato su motivazioni di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o relativa all'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali -, il giudice riconosce la tutela più ampia, la c.d. tutela reale piena, ossia la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva alla reintegrazione, corrispondente a 15 mensilità. Pertanto il lavoratore può scegliere di tornare al lavoro (ovvero di essere reintegrato nel suo posto di lavoro), oppure di non tornarvi dietro pagamento, da parte del datore di lavoro, di 15 mensilità. Questa disciplina si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale, nonché nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.

Ma la tutela non finisce qui: oltre alla reintegrazione (o al pagamento dell’indennità sostitutiva), il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l'inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è inoltre condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

E’ possibile che il datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per “giustificato motivo”, che può essere oggettivo – per cause cioè inerenti all’azienda, come per esempio le riorganizzazioni -, o soggettivo – che avviene in caso di grave inadempimento contrattuale. Il datore può anche licenziare per giusta causa, ossia un comportamento del lavoratore, talmente grave da non poter permettere la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro.

Se d’altra parte il lavoratore impugna il licenziamento e il giudice ne riconosca l’illegittimità, secondo la nuova disciplina condannerà il datore al pagamento di un'indennità di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Tale indennità non sarà soggetta a contribuzione previdenziale.

E’ opportuno evidenziare un ulteriore aspetto di differenza tra la prima e l’appena citata disciplina, in quanto nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio e quindi di tutela piena, il rischio di soccombere in un processo che si sia eccessivamente protratto nel tempo si concentra sul datore di lavoro che, in caso di soccombenza, deve, tra le altre cose, pagare le retribuzioni dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione.

Nel secondo caso, invece, la quantità economica dovuta dal datore di lavoro è, al massimo, di due mensilità ogni anno di servizio (con un minimo di 4 mensilità), senza tener presente della tempo intercorso dall’instaurazione della causa al giorno del giudizio.

La differenza delle tutele menzionate è davvero notevole. In questo secondo caso, tra l’altro, non interviene la possibilità di reintegrazione.

Esiste poi una specificazione dell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (e quindi non oggettivo) o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio “l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione.

E’ inoltre il caso di sottolineare l’ambiguità dell’espressione “estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, rispetto alla quale già alcuni interpreti si sono espressi, ma per la quale solo la futura giurisprudenza potrà attribuire un significato preciso.

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