Contratto a Tutele Crescenti: Ipotesi di Illegittimità

Post on 22 Settembre 2015
by Avv. Nicola Ferrante

Il Decreto Legislativo n. 23/2015 prevede una tutela in caso di licenziamento che cresce con l’anzianità aziendale del lavoratore. Tale tutela differisce in quattro casi principali: licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale; licenziamento per giusta causa e giustificato motivo; insussistenza del fatto materiale contestato (caso particolare del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo); vizi formali e procedurali; licenziamento collettivo.

Analizziamo le prime due ipotesi.

Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio – basato sul fatto che un lavoratore/trice aderisca o non aderisca a un sindacato oppure basato su motivazioni di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o relativa all'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali -, il giudice riconosce la tutela più ampia, la c.d. tutela reale piena, ossia la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva alla reintegrazione, corrispondente a 15 mensilità. Pertanto il lavoratore può scegliere di tornare al lavoro (ovvero di essere reintegrato nel suo posto di lavoro), oppure di non tornarvi dietro pagamento, da parte del datore di lavoro, di 15 mensilità. Questa disciplina si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale, nonché nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.

Ma la tutela non finisce qui: oltre alla reintegrazione (o al pagamento dell’indennità sostitutiva), il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l'inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è inoltre condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

E’ possibile che il datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per “giustificato motivo”, che può essere oggettivo – per cause cioè inerenti all’azienda, come per esempio le riorganizzazioni -, o soggettivo – che avviene in caso di grave inadempimento contrattuale. Il datore può anche licenziare per giusta causa, ossia un comportamento del lavoratore, talmente grave da non poter permettere la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro.

Se d’altra parte il lavoratore impugna il licenziamento e il giudice ne riconosca l’illegittimità, secondo la nuova disciplina condannerà il datore al pagamento di un'indennità di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Tale indennità non sarà soggetta a contribuzione previdenziale.

E’ opportuno evidenziare un ulteriore aspetto di differenza tra la prima e l’appena citata disciplina, in quanto nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio e quindi di tutela piena, il rischio di soccombere in un processo che si sia eccessivamente protratto nel tempo si concentra sul datore di lavoro che, in caso di soccombenza, deve, tra le altre cose, pagare le retribuzioni dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione.

Nel secondo caso, invece, la quantità economica dovuta dal datore di lavoro è, al massimo, di due mensilità ogni anno di servizio (con un minimo di 4 mensilità), senza tener presente della tempo intercorso dall’instaurazione della causa al giorno del giudizio.

La differenza delle tutele menzionate è davvero notevole. In questo secondo caso, tra l’altro, non interviene la possibilità di reintegrazione.

Esiste poi una specificazione dell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (e quindi non oggettivo) o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio “l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione.

E’ inoltre il caso di sottolineare l’ambiguità dell’espressione “estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, rispetto alla quale già alcuni interpreti si sono espressi, ma per la quale solo la futura giurisprudenza potrà attribuire un significato preciso.

In questa sezione potete trovare gli articoli riguardanti il contratto a tutele crescenti, le ipotesi di illegittimità del contratto a tutele crescenti, altre ipotesi di illegittimità del contratto a tutele crescenti, gli incentivi nel contratto a tutele crescenti.

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